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Stipendi pubblici: il tetto di 240 mila euro può essere alzato

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Questa volta non si può proprio dire che il presidente dell’Aran, Antonio Naddeo, l’abbia toccata piano. La sua proposta di abrogare, o quanto meno rivedere, il tetto dei 240 mila euro annui fissato per le retribuzioni dei dipendenti pubblici, ha subito agitato le acque. Sul chi va là i sindacati, per i quali in questa fase non sono gli stipendi dei super dirigenti a essere prioritari, ma semmai quelli dei lavoratori pubblici delle fasce più basse, che con il prossimo rinnovo vanno incontro ad aumenti parsimoniosi, del 4,07 per cento.

La proposta

Per Naddeo però il limite dei 240 mila euro, attivo dal 2014, oggi costituisce un pericoloso «tappo». In un’intervista rilasciata a Il Messaggero, il presidente dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni spiega che «i rinnovi dei contratti hanno fatto crescere le retribuzioni e così si è ristretta la forbice tra chi già era al limite dei 240 mila euro e chi invece partiva più in basso». Risultato? Il principio alla base della retribuzione di posizione, secondo cui chi ha maggiori responsabilità deve guadagnare di più, in molti casi non troverebbe più riscontro nella realtà. Per questo il numero uno dell’Aran suggerisce in sostanza di rivedere il tetto «creando dei parametri di riferimento in relazione alle responsabilità e al lavoro che fanno alcune alte qualifiche dello Stato».

Precedenti

Non è la prima volta che il limite alle retribuzioni dei dipendenti pubblici, ora nel mirino dell’Aran, finisce al centro delle polemiche. Già nel 2017 la Consulta aveva salvato il tetto, dichiarando infondate le questioni di legittimità costituzionale concernenti il limite retributivo sollevate dal Tar del Lazio, in seguito ai ricorsi di numerosi giudici della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato. «Il limite massimo ai compensi dei dipendenti pubblici», si legge nella sentenza della Consulta di allora, «persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate». 

La storia 

Il tetto compare per la prima volta sulla scena, anche se in forma più lieve, con Mario Monti a Palazzo Chigi, quindi in piena austerity: in quel caso viene preso a riferimento lo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, superiore a 300 mila euro, per stabilire il limite da non oltrepassare. Nel 2014 Matteo Renzi decide di estenderlo ai manager delle società pubbliche (non quotate) e di non applicare più il tetto solo ai dirigenti della pubblica amministrazione, ma anziché posizionare l’asticella del limite al livello dello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione opta per quello del presidente della Repubblica, che è appunto di 240 mila euro. In Rai la novità provoca un terremoto.

Aumenti selettivi

La domanda ora è una sola: il tetto alle retribuzioni dei dipendenti pubblici può saltare? L’idea espressa da Antonio Naddeo in realtà sembra prevedere criteri di selettività ben definiti, affinché il limite venga modificato solo per certe posizioni. Come sottolineato dal presidente dell’Aran nel corso dell’intervista rilasciata al quotidiano della Capitale oggi può accadere che «il capo della polizia, quello della protezione civile o il ragioniere generale dello Stato guadagnino quanto un capo dipartimento di un ministero che ha responsabilità infinitamente minori». Nel frattempo sui social è bagarre. Le parole di Naddeo hanno innescato un’ondata di reazioni su Facebook e Twitter e qualcuno ha anche chiesto tetti più stringenti per le posizioni meno strategiche.

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