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Statali, per il contratto si profila un altro blocco

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C’è un grande assente nel dibattito politico di questi mesi: il rinnovo dei contratti del pubblico impiego per lo più scaduti nel 2021 (restano, infatti, ancora piccole aree in cui il rinnovo è atteso addirittura dal 2019). Di sedersi a un tavolo con i sindacati per avviare le trattative non ne parla il presidente del Consiglio e nemmeno il titolare dell’Economia o qualche altro ministro, nonostante lo Stato nelle sue articolazioni centrali e periferiche sia di gran lunga il più importante datore di lavoro della nazione, con oltre 3 milioni e 200 mila dipendenti. Qualche cenno al problema lo ha fatto solo il ministro della Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, per evidente responsabilità diretta nella materia, ma le sue rare dichiarazioni rappresentano più che altro un modo elegante di mettere le mani avanti. Lo si capisce leggendo proprio l’intervista rilasciata a PA Magazine ad inizio agosto, nella quale è stato lo stesso ministro a chiarire che l’impegno “a reperire le risorse per avviare i rinnovi” ha un orizzonte ben più lungo di quello rappresentato dalla prossima manovra finanziaria, visto che “sono state necessarie ben quattro leggi di bilancio per chiudere l’ultima tornata”.

Zangrillo: «Più vicini i rinnovi dei contratti degli statali»

La realtà è che si prospetta una manovra di almeno 30 miliardi, pesante sul piano del reperimento delle risorse ma ben lontana dalla capienza necessaria a coprire le promesse elettorali e le aspettative innescate, così addio Quota 41 tanto cara a Matteo Salvini, al massimo sul capitolo pensioni ci sarà un rinnovo della Quota 103 (quella che permette di lasciare il lavoro con 62 anni di età e 41 di contributi). Anche il dossier fiscale sarà rimandato a tempi migliori, già è complicato confermare il taglio del cuneo per i redditi meno bassi, che da solo costa una decina di miliardi e se non venisse prorogato finirebbe per tagliare a qualche milione di lavoratori di 80-100 euro lo stipendio di gennaio (impensabile a pochi mesi dalle elezioni europee), inoltre c’è da coprire la detassazione delle tredicesime, altra misura tanto sbandierata. C’è poi da garantire qualche intervento per le famiglie, del resto la premier Giorgia Meloni s’è esposta troppo su questo fronte e quindi vanno trovati i fondi per un nuovo bonus per il secondo figlio e le agevolazioni per le madri con numerosa prole.

Def: zero risorse per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici

Di fondi per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, che nella versione light costerebbero tra 8 e 10 miliardi, non sembrano rimanercene proprio e quindi l’unica misura a favore dei dipendenti pubblici che si profila all’orizzonte (ancora però con qualche margine d’incertezza) è il rinnovo del bonus una tantum dell’1,5% della retribuzione, da distribuire in 13 mensilità, già deciso dal governo Draghi con la precedente legge di Bilancio (circa 1 miliardo e 800 milioni la cifra complessiva, mettendo nel conto anche il bonus concesso ai dipendenti della Sanità).

Quanto quell’1,5% sia lontana dalle esigenze dei lavoratori lo ha spiegato involontariamente lo stesso Zangrillo quando ha ricordato che se anche venissero rinnovati i contratti bisognerebbe dimenticarsi il recupero dell’inflazione. “Se sommiamo l’incremento dell’indice Ipca atteso tra il 2022 e il 2024”, ha detto, infatti, il ministro, “arriviamo al 15-16 per cento. Servirebbero più di 30 miliardi, è irrealistico pensare di trovarli”. Parole chiare con l’aggravante che in sede di rinnovo contrattuale l’adeguamento all’inflazione viene sì calcolato utilizzando l’indice Ipca (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea) ma al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, cioè non vengono messi nel conto proprio quei costi che negli ultimi due anni, per effetto della guerra in Ucraina, hanno fatto volare i prezzi.

Il rinnovo del contratto? Gli statali dovranno accontentarsi del taglio Irpef. Una via iniqua già tentata (senza fortuna) in passato

Quello che si profila, dunque, è un nuovo blocco di fatto dei contratti del pubblico impiego, non dissimile, almeno nella sostanza, da quello deciso nel 2010 dal governo Berlusconi. Una misura, non bisogna mai dimenticarlo, venne bocciata con parole chiare dalla Corte Costituzionale nel 2015, che non solo mise in mora l’esecutivo presieduto da Cavaliere, ma anche gli esecutivi seguenti guidati da Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, che quel blocco avevano reiterato.

“Se i periodi di sospensione delle procedure ‘negoziali e contrattuali’ non possono essere ancorati al rigido termine di un anno”, avevano, infatti, scritto nella loro sentenza i giudici della Corte, “è parimenti innegabile che tali periodi debbano essere comunque definiti e non possano essere protratti ad libitum”. Ed ancora: “Il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma, Cost.). Il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall’art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile”.

Dietro il rinnovo di questi contatti, insomma, come sancito dalla Corte, non c’è solo una grande questione sociale e sindacale ma un serio problema di rispetto dei diritti costituzionali di oltre 3 milioni di lavoratori. Ecco perché il silenzio sul tema sta diventando assordante.

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