Lo sciopero delle toghe del 16 maggio è stato «un fallimento» e «una reazione spropositata». Quanto ai concorsi pubblici in corso, dalla Giustizia agli ispettori del lavoro, il nodo rimane che «sono banditi senza tener conto del mercato del lavoro» e per questo «ci sarebbe bisogno di un revisione di tutta la procedura di selezione e comparazione». Parola di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e tra i massimi esperti di Pubblica amministrazione in Italia, che in una chiacchierata con PaMagazine spazia dai temi della giustizia a quelli dello smart working nella P.a. E sulla nuova stagione di concorsi pubblici dice: rivoluzione Brunetta? «Lascerei il termine rivoluzione a quella francese della fine del 700».
L’Associazione Nazionale Magistrati ha deliberato un giorno di astensione dall’attività giudiziaria lunedì 16 maggio per condividere con l’opinione pubblica le ragioni della magistratura rispetto alla riforma della giustizia in discussione in Parlamento che, ad opinione dell’Associazione, potrebbe risultare potenzialmente lesiva dei diritti e delle garanzie di ciascun cittadino. Ha ragione l’Anm o la Cartabia?
Lo sciopero è riuscito a metà ed è stato un fallimento. Ha contribuito alla sfiducia diffusa nel nostro Paese verso i giudici. Tutti si sono reso conti che si è trattato di una reazione sproporzionata. É apparso chiaro che la richiesta dell’Associazione nazionale dei magistrati di essere ascoltati voleva in realtà dire che l’Associazione nazionale magistrati pretende di decidere essa stessa in luogo del Parlamento.
Rimaniamo sul tema giustizia ma lato reclutamento. Dopo le polemiche iniziali, è stato bandito il concorso per reclutare 8.171 addetti all’ufficio del processo, ovvero metà del contingente previsto da Governo. A concorso concluso diversi posti sono rimasti vacanti. E l’avvio dello scorrimento delle graduatorie da un distretto all’altro è anche bloccato. Cosa non ha funzionato secondo lei?
Si possono fare due ipotesi. La prima: forse le assunzioni dovevano essere fatte in maniera più progressiva, sia perché tante persone disposte a lavorare nel settore della giustizia non si trovano in un momento solo, sia perché con concorsi espletati più progressivamente, per un numero più limitato di posti, si tiene conto dell’afflusso di neolaureati nel corso degli anni. La seconda ipotesi: anche per questo reclutamento si è ripetuto un errore più volte fatto in passato, quello di ritenere il concorso un fatto meccanico; da tempo è chiaro all’interno dell’amministrazione che i concorsi vanno gestiti meglio, con procedure e valutazioni meno stereotipe, con attenzione alla provenienza dei concorrenti, tenendo conto delle esperienze fatte altrove, in particolare nel Regno Unito e nelle aziende private, oltre che una Banca d’Italia.
Altro concorso, altro problema. Sono già due i concorsi Sud che il Governo bandisce per reclutare esperti per il Pnrr nelle regioni del Meridione, e tutti e due sono stati dei flop, con meno vincitori dei posti banditi. Cosa si dovrebbe fare? Basta, come ha fatto il Governo, prevedere chiamate dirette e stipendi più alti?
I concorsi sono banditi senza tener conto del mercato del lavoro, dell’afflusso dei diplomati o laureati e del numero delle prevedibili domande, dei tempi di svolgimento, dei luoghi di lavoro e dei posti che vengono banditi.
Alla luce di questi esempi (a cui possiamo aggiungere ad esempio il concorso per ispettori del lavoro bandito e ancora non partito dopo mesi), e dopo quasi un anno di “collaudi”, come giudica la “rivoluzione Brunetta” dei concorsi pubblici e la gestione di questa nuova stagione di assunzioni nella P.a?
Lascerei il termine rivoluzione a quella francese della fine del 700. Di una semplificazione dei concorsi c’era bisogno. Ma ci sarebbe bisogno di un revisione di tutta la procedura di selezione e comparazione, che viene compiuta attraverso i concorsi: scegliere meglio le persone da nominare nelle commissioni di concorso, considerare la possibilità, sperimentata nel Regno Unito, di autovalutazioni preliminari da parte degli stessi concorrenti, modificare le prove di concorso in modo da avere attraverso di esse una più precisa valutazione del profilo dei concorrenti, e così via.
Fino al 31 dicembre 2026, le amministrazioni coinvolte da progetti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, quindi ministeri, Regioni, Comuni, Province e città metropolitane, potranno conferire incarichi di consulenza retribuiti (per non più di tre anni) a lavoratori che siano andati in pensione. Cosa pensa di questa scelta?
Sull’utilizzo di pensionati nella pubblica amministrazione si è creato un orientamento di tipo ideologico, che non corrisponde nè alle esigenze sociali né a quelle amministrative. Senza generalizzare l’utilizzo di pensionati, che potrebbe creare delle stabili porte girevoli, penso che sia utile per l’amministrazione di valersi di persone che sono andate in pensione, a patto che non si tratti di pensionati baby o di persone che hanno goduto di trattamenti agevolati per andare in pensione prima dei 67 anni,
Concludiamo con una domanda sullo smart working. Le amministrazioni pubbliche hanno tempo fino alla fine di giugno per decidere se e come continuare a fare ricorso al lavoro agile. Secondo lei il Covid ci ha aperto la mente verso una nuova possibilità di conciliazione vita-lavoro o è il momento di abbandonare lo smart working e tornare al lavoro pre-Covid?
Consiglierei intanto di chiamarlo con il termine giusto cioè di lavoro da casa, “home working”. Attribuire l’aggettivo “smart” mi pare eccessivo. Rispondere in termini generali a questa domanda è impossibile. I lavori nelle pubbliche amministrazioni sono molto diversi. Non si può pensare che il geometra che lavora in un ufficio comunale e che ha continui contatti col pubblico sia assente dall’ufficio, che l’impiegato che opera allo sportello non sia presente tutti i giorni al lavoro, che l’addetto ai trasporti si possa assentare. Dunque, bisognerebbe innanzitutto identificare le figure professionali per le quali è possibile il lavoro da casa. In secondo luogo, in relazione alle singole mansioni, occorre stabilire qual è l’equilibrio ottimale tra il lavoro svolto in ufficio e il lavoro svolto a casa, e definire i nuovi metodi di controllo della produttività e delle valutazioni di performance. Infine, bisogna tener conto anche degli effetti sociali che il lavoro da casa comporta, sia in termini di socializzazione dei dipendenti pubblici, sia in termini di formazione di un “idem sentire” che può derivare soltanto da un lavoro svolto insieme, sia in termini di attività sussidiarie, oggi localizzate intorno ai posti di lavoro, e domani invece piuttosto intorno ai luoghi di abitazione dei dipendenti pubblici.
Lavoro in una PA come amministrativa da 32 anni (ambito alta istruzione).
Ho seguito tantissimi concorsi e solo perché la mia presenza veniva richiesta in aiuto alla Commissione per la redazione dei verbali (facsimili già pronti).
In 32 anni ho visto cosa è – ed è rimasta nonostante le riforme succedutesi – la macchina dei concorsi pubblici a qualsiasi livello e ambito. Una presa in giro per i meritevoli, quelli senza raccomandazione.
E vorrei qui fare una proposta:
– abolizione delle Commissioni
– concorso solo con test preparati da studiosi e tecnici competenti (ma di vera competenza)
– il numero dei test da preparare deve essere, in base al numero dei posti a concorso e al numero di test che verrà somministrato, in numero moltiplicato per cento
– la preparazione dei test deve essere completa di soluzione
– i test (corredati delle soluzioni che serviranno all’atto della valutazione) vengono poi immessi in un calcolatore che, casualmente sceglierà quali somministrare il giorno stesso del concorso e in presenza di tutti i candidati
– la valutazione dei test verrà fatta solo ed esclusivamente dal calcolatore.
Questo è l’unico modo affinché non vincano sempre e solo i raccomandati.