PA Magazine

Meno tasse ma niente aumenti agli statali, un film (brutto) già visto

6 minuti di lettura
Rome, Italy - March 24, 2020: Palazzo Chigi, seat of the Italian government, facade of the building illuminated with the colors of the Italian flag. Coronavirus emergency Italy.

Si apre una settimana cruciale per la delega fiscale preparata dal viceministro Maurizio Leo, che il Consiglio dei ministri dovrebbe discutere e licenziare nei prossimi giorni. A grandi linee il testo è abbastanza noto, anche perché ha fatto parte del programma elettorale di Giorgia Meloni, molto
più cauto delle piattaforme molto ideologiche e poco praticabili degli alleati di Forza Italia e Lega, centrati su una difficilmente realizzabile flat tax. Leo, invece, fin dall’inizio, ha puntato su una riduzione da quattro a tre delle aliquote irpef, rimandando il tema della flat tax a tempi congiunturalmente più propizi e comunque non prima della fine della legislatura. Ad essere in discussione, almeno finora, dovrebbe essere ancora il limite minimo di ogni scaglione.

LA PROPOSTA

Attualmente fino a 15 mila euro di reddito annuo si paga il 23%, fino a 28 mila euro il 25%, fino a 50 mila il 35% e sopra quella soglia il 43% (ovviamente più le addizionali regionali e comunali). Nella riforma resterebbero immutate aliquota e soglia massima (43% sopra i 50 mila), ma è ancora in discussione se mantenere la minima del 23% al di sotto dei 15 mila euro o l’asticella fino ai 28 mila euro. Nel caso si tenesse il limite ai 15 mila euro, l’aliquota intermedia sarebbe del 28%, nell’altro caso al di sopra dei 28 mila euro e fino ai 50 mila euro si pagherebbe il 33%. Come è facile capire si tratta di una riforma i cui vantaggi verrebbero percepiti soprattutto dal ceto medio, che rappresenta la gran parte dei contribuenti, visto che quelli con redditi superiori a 55mila euro sono il 4,58% del totale (anche se versano oltre il 38% dell’Irpef complessiva).

I CALCOLI

Difficile al momento calcolare i vantaggi per le fasce interessate, secondo i primi calcoli si va da circa 100 euro all’anno per le fasce più basse fino a un migliaio di euro per quelle più alte, ma sono calcoli che lasciano il tempo che trovano visto che bisogna ancora sapere che tipo di compensazioni saranno varate per ridurre l’impatto sui conti pubblici. La cassaforte alla quale il governo pensa di attingere è la stessa a cui si sono rivolti gli altri esecutivi, ossia la montagna di tax expenditure (detrazioni, deduzioni, esenzioni ecc.) che a sentire Leo ormai “cuba circa 156 miliardi”, pochi dei quali, però, sono “aggredibili”. Anche il governo Meloni, infatti, non procederà a tagli delle detrazioni sulle spese per sanità, istruzione, interessi per mutui e contributi colf.

LA PARTITA DELLE COPERTURE

Più probabile che l’esecutivo riduca l’impatto delle nuove aliquote applicando un meccanismo a forfait che sterilizzi in parte la quantità delle detrazioni, si parla di un limite al 4% dell’imponibile per i redditi più bassi che si ridurrebbe via via per quelli più alti. La delega fiscale, ovviamente, non si limita al numero delle aliquote irpef ma si allarga all’ires delle imprese e ai procedimenti di accertamento. Nell’ottica di una pacificazione tra contribuenti e fisco, infatti, prevede persino l’abolizione del reato di infedele dichiarazione, oltre lo stralcio delle cartelle al di sotto dei mille euro e una rateizzazione in cinque anni delle cifre superiori già accertate. È evidente però che l’aspetto più politico della riforma riguarda l’irpef. Il governo, infatti, punta a far approvare la delega entro l’anno, in modo da poter mettere in campo le nuove aliquote nel 2024, quando ci saranno anche le elezioni europee ed è, a questo punto, molto probabile che l’idea sia quella di bissare il successo ottenuto da Matteo Renzi, che portò il Pd al 40% sfruttando l’onda di consenso ottenuta con gli ottanta euro in busta paga. E se è questo l’obiettivo, c’è però un’altra considerazione da fare.

IL PASSAGGIO

Oggi, come dieci anni fa, non ci sono solo in ballo questioni fiscali, ma anche il rinnovo di contratti importanti, come quello del settore pubblico. Ma lo Stato datore di lavoro, come è noto, ha precisi vincoli di bilancio, ribaditi in questi giorni dal vicepresidente della Commissione Europea, Valdis Dombrovskis e dal commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, che hanno ricordato che le deroghe sono ormai finite e dal prossimo anno non solo non si potrà sforare il 3% del deficit, ma dovranno ripartire anche le manovre per ridurre il debito pubblico. Di fronte ad avvertimenti analoghi, nel 2014 il governo Renzi scelse di negare gli aumenti contrattuali per i dipendenti pubblici, facendo notare che anche questi ultimi in qualche modo avevano ottenuto più soldi in busta paga (sempre gli ottanta euro). Se ora l’attuale premier cercasse di scambiare gli aumenti contrattuali con un irpef più clemente sarebbe come assistere ad un film già visto. Un brutto film.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Ultimi articoli da