Un “premio” per chi rinvia la pensione. Soprattutto per evitare fughe dal lavoro pubblico, a partire dai medici. C’è anche questo sul tavolo del governo in vista della prossima manovra di bilancio. Ma andiamo con ordine. Nel lavoro pubblico c’è un problema, ed è noto da tempo. Il blocco decennale del turn over ha svuotato gli uffici e ha aumentato, e di molto, l’età media dei dipendenti pubblici ormai arrivata a 50 anni. Quota 100, il pensionamento con 62 anni di età e 38 di contributi introdotto dal primo governo Conte, quello nella cui maggioranza c’era anche la Lega, ha fatto il resto. Gli uffici pubblici, più o meno tutti, hanno una carenza di organico in media del 30 per cento. La Pubblica amministrazione ha una fame disperata di nuove leve, possibilmente giovani. Così il governo Draghi, con l’azione dell’ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, ha in tutti i modi provato a sbloccare ed accelerare i concorsi pubblici. Ma i risultati non sono stati per ora all’altezza delle aspettative.
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IL CORTOCIRCUITO
I giovani, soprattutto quelli con le competenze più elevate, hanno per adesso disertato i concorsi pubblici. A partecipare alle numerosissime selezioni che si sono tenute nell’ultimo anno, anno e mezzo, è stata soprattutto una classe che potrebbe definirsi di “concorsisti”. Per la maggior parte laureati in giurisprudenza attratti dal posto sicuro in concomitanza con la crisi della libera professione. Ma in molti casi, come per esempio nel concorso per il Sud, non si è trattato propriamente di giovani. Piuttosto di 40-45enni in cerca di una stabilità lavorativa. Una massa abbastanza compatta che ha partecipato a tutte le selezioni disponibili, dall’Agenzia delle dogane, alla Motorizzazione civile, all’Ufficio del processo, fino ai posti disponibili per il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Qual è stato l’effetto? Duplice. Da un lato molti vincitori “multipli” hanno potuto scegliere il posto meglio retribuito e più vicino alla loro residenza lasciando, però, scoperte diverse posizioni nelle amministrazioni. Il secondo è che l’età media della Pubblica amministrazione, per ora, non si è poi ridotta di tanto. I giovani, insomma, per adesso sembrano essersi tenuti alla larga dai concorsi pubblici. E forse prima o poi bisognerà iniziare a interrogarsi anche sulla fine, almeno per le nuove generazioni, del lavoro impiegatizio, inteso come un lavoro svolto per lunghe ore dietro una scrivania e con vincoli stringenti di orario. Ma per ora tant’è.
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La domanda dunque è: in questo quadro complicato che effetto avrebbe una nuova campagna di prepensionamenti sugli uffici pubblici? C’è, per dirla in altri termini, il rischio di un nuovo svuotamento senza nel frattempo aver fatto entrare abbastanza nuove leve per garantire l’operatività degli uffici già tremendamente sguarniti? Un dubbio che deve essersi posto anche il nuovo governo che, proprio in questi giorni, sta ragionando a una serie di norme da inserire nella prossima legge di bilancio in materia di pensioni sia pubbliche che private. L’idea di fondo per il prossimo anno è quella di confermare Quota 102, il pensionamento con 64 anni di età e 38 di contributi. Se la via scelta dovesse essere questa, in realtà, non ci sarebbero grandissimi problemi.
Lo scorso anno solo poche migliaia di dipendenti hanno utilizzato questo scivolo per anticipare la pensione. Gli impatti, insomma, sarebbero limitati. Ma sul tavolo ci sono anche altre ipotesi. Come, per esempio, quella spinta dalla Lega per permettere il pensionamento a 61 anni di età con 41 anni di contributi. Anche qui la somma farebbe 102, ma gli effetti sarebbero diversi. Molte più persone potrebbero lasciare il lavoro e, nel caso della Pubblica amministrazione, questo potrebbe essere un problema per la funzionalità degli uffici.
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LA POSSIBILE SOLUZIONE
Proprio per questo sempre sul tavolo del governo ci sarebbe un possibile correttivo. Accanto al pensionamento anticipato a 61 anni (64 nel caso di Quota 102 “modello Draghi”), verrebbe introdotto un “incentivo” a rimanere al lavoro dopo il compimento dei 63 anni. Si tratta di uno sgravio contributivo che permetterebbe ai dipendenti di mantenere in busta paga le somme normalmente versate allo Stato per i contributi. A conti fatti un aumento della retribuzione netta di circa il 30 per cento. Un sistema simile fu escogitato anche una ventina di anni fa nella riforma Maroni. Chi andava in pensione avendo maturato 40 anni di contributi, poteva continuare a lavorare incassando come netto in busta paga tutti i contributi versati, compresi quelli dell’azienda (o della Pubblica amministrazione). Il meccanismo, insomma, potrebbe essere replicato per convincere i dipendenti ad allungare la propria permanenza al lavoro. Ma una riflessione forse va fatta. Al di là delle buone intenzioni di non sguarnire gli uffici, una misura del genere farebbe a cazzotti con il ringiovanimento dell’amministrazione pubblica che, invece, ha bisogno di concorsi e di un’offerta attrattiva per attirare i migliori talenti all’interno delle amministrazioni dello Stato.
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