Pensionati a dieta. Governo a caccia di risorse per affrontare il nodo della rivalutazione degli assegni, con l’inflazione acquisita che nel 2023 è già al 5,6%. Il problema è serio in quanto il pacchetto previdenziale deve fare i conti con gli altri dossier aperti della manovra. E il rischio, appunto, è che il governo sia costretto a imboccare la strada di una rivalutazione light, limitando gli adeguamenti alle fasce più basse. Tra l’altro va considerata anche la differenza tra la rivalutazione riconosciuta l’anno scorso (il 7,3% per i trattamenti fino a quattro volte il minimo) e l’inflazione reale. Nella legge di Bilancio dell’anno scorso la rivalutazione è stata tagliata per fasce a partire dagli assegni oltre quattro volte il minimo e quest’anno dovrebbe essere mantenuto lo stesso criterio. In questo modo recupereranno l’intera inflazione gli assegni fino a 2.254,93 euro lordi al mese, mentre avranno una rivalutazione ridotta quelli superiori a questa soglia (si va dall’85% dell’aumento dei prezzi per quelli tra quattro e cinque volte il minimo al 32% per quelli superiori a 10 volte il minimo).
Minime
In alto mare anche la questione delle pensioni minime. In primavera il parlamento ha votato (a larga maggioranza trasversale) una mozione che impegna il governo a portare le pensioni minime da 600 a quota mille euro entro la fine della legislatura, fissata per il 2027. Si tratta di un vecchio pallino di Forza Italia. Però per centrare l’obiettivo ci vogliono circa 20 miliardi, che al momento non ci sono. Così la maggioranza sta lavorando a un piano a tappe che prevede un primo segnale nel 2024. Vale a dire un ritocco verso l’alto, da 600 a 700 euro, riservato ai soli pensionati al minimo che hanno superato i 75 anni. Una mossa che costerebbe poco meno di 400 milioni.
Donne
E poi. Il governo studia la possibilità, per le donne, di andare in pensione con quattro mesi di anticipo per ogni figlio: un sconto sull’età di accesso che varrebbe su tutte le forme pensionistiche e anche per le lavoratrici che sono nel sistema misto. In questo modo si estenderebbe quanto già previsto dalla riforma Dini del 1995 che però riconosce l’anticipo (e nel limite massimo di dodici mesi) solo per chi è totalmente nel sistema contributivo. Quattro mesi di anticipo equivarrebbero a 700 milioni di spesa in più. Resta l’impegno, inoltre, a rivedere Opzione donna, su cui però rimane aperta la questione coperture e per questo vanno avanti i contatti tra ministero del Lavoro e Mef. Su Opzione donna il range di opzioni possibili va dall’ipotesi massima di ritornare alla versione precedente a quella minima di intervenire su alcuni paletti. I sindacati spingono per tornare alla versione pre-manovra, con l’età di uscita per le donne a 58 anni se dipendenti e 59 anni se autonome e con 35 anni di contributi. L’ultima legge di Bilancio per quest’anno ha lasciato i contributi a 35 anni, ma ha alzato l’età a 60 anni, che viene ridotta di un anno per ogni figlio nel limite massimo di due anni (quindi a 59 anni con un figlio e 58 anni con due o più figli), e per tre categorie di lavoratrici: caregiver, invalide al 74%, licenziate o dipendenti da imprese in crisi. Solo in quest’ultimo caso, la riduzione a 58 anni è automatica. Con una platea potenziale ristretta a circa 2.900 lavoratrici.