Smart working, il vento sembra essere cambiato con l’avvicendamento tra il ministro Renato Brunetta e Paolo Zangrillo alla Funzione pubblica. La visione del ministero è (nuovamente) virata su posizioni più favorevoli al lavoro agile, e per questo siamo tornati a intervistare uno tra i massimi esperti in Italia della materia: Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working della School of Management Politecnico di Milano. Che ci dice che applicare lo smart working e valutare la performance nel pubblico si può, e in qualche modo si deve, ma bisogna cambiare paradigma, riformare l’organizzazione manageriale della Pa, abbandonare anche l’idea che il lavoro agile sia un “diritto” di autonoma gestione del singolo lavoratore.
Il cambiamento
Corso innanzitutto ci dice che del “nuovo corso” di Zangrillo non è stupito: «Ce lo aspettavamo, d’altronde il nuovo ministro è stato un direttore del personale, quindi ha l’esperienza, ha il background di chi deve e sa gestire le risorse umane, ed è dunque da attendersi che abbia una posizione pragmatica e consapevole». Tutta un’altra storia, dunque, rispetto alle posizioni di Brunetta, che, per dirla con Corso, costringendo a percentuali rigide l’uso di un mezzo di per sé flessibile (basti pensare che il ricorso al lavoro agile «con Brunetta si è ridotto del 70%») stava portando a una «pericolosissima anomalia nell’applicazione dello smart working”» nella Pa, con conseguente «svantaggio competitivo del settore pubblico rispetto a quello privato, con il rischio che i cervelli migliori scappino dal lavoro statale. Sia chiaro, questa la posizione del professore, «all’interno della Pubblica amministrazione ci sono organizzazioni di natura completamente diversa» a cui dunque non è possibile applicare un modello e una percentuale fissa di lavoro agile, ma, all’opposto, «è veramente difficile dire che non è applicabile lo smart working a un sistema che in larga parte si occupa di servizi sempre più digitalizzati».
Vecchi limiti
Un ragionamento, quello del professore, che sembra andare nella stessa direzione del ministro Zangrillo, pronto, come si è detto, ad abbandonare la rigida regola imposta da Brunetta dell’obbligo di lavoro in presenza per almeno il 51% del tempo lavorato. «Una pagina veramente buia», sostiene il professore, e «una profonda sciocchezza» perché «stabiliva una misura uguale per tutti in un contesto in cui coesistono tante realtà diverse, come dire a tutti quelli che lavorano in un ufficio che devono calzare le scarpe di taglia 39». Non solo.
«Dare dei limiti dal centro ingenera – spiega Corso – la lettura opposta: se tu dici che il 51% del tempo lavorato devi stare in ufficio, è come se tu dicessi che il 49% di smart working è un diritto soggettivo. E questo – prosegue il professore – è di una pericolosità pazzesca, così come sono state per un certo verso sbagliate, seppur animate da un intento positivo, le iniziative tese ad affermare la priorità di alcune categorie rispetto ad altre». Questo evidentemente «depotenzia il valore dello smart working come scambio tra autonomia e flessibilità», chiosa.
I consigli
Che fare allora? Per Corso innanzitutto bisogna ancora una volta chiarire che «il lavoro da remoto non inserito in una realtà organizzativa che dà autonomia agendo sugli orari, sugli strumenti e sull’orientamento ai risultati, crea solo stress». Invece, quello che «è assolutamente necessario è fare un salto concettuale, potenziare la dirigenza e fare una vera organizzazione del lavoro» che superi l’errato concetto che sia il «singolo lavoratore ad avere diritto – ad esempio – a 10 giorni fissi di smart working al mese, come fossero ferie o 104». Nella Pubblica amministrazione veramente “smart” che Corso immagina, invece, «deve essere il dirigente che, in funzione di linee guida e delle mansioni, definisce l’organizzazione del lavoro: il che implica che anche la scelta di quali giornate lavorare da remoto non possa essere assolutamente appannaggio dei singoli lavoratori». Proprio nell’ambito di questa organizzazione di un lavoro flessibile, il ministro Zangrillo è stato chiaro sin da subito nel dire che lo smart working deve essere legato ai risultati, ovvero alla valutazione delle performance. Ma è possibile farlo in ambito pubblico, o è così difficile come sembrato finora? «Innanzitutto – ci dice Corso – bisogna ricordare che lo smart working non è lavorare da remoto ma è lavorare per obiettivi coerentemente alla performance». Un cambio di paradigma che prevede che «anche se sei un lavoratore dipendente tu puoi e dovresti essere misurato in termini di creazione del valore, il che prescinde dalle ore in cui stai in ufficio». Da questo punto di vista per Corso «è possibile misurare la performance di una pubblica amministrazione» anche perché «se si ammette che in una organizzazione non è misurabile la performance, significa che forse la performance non c’è, e allora quella amministrazione va chiusa».