«Oltre la metà dei lavoratori pubblici che hanno operato in smart working durante la pandemia ha raggiunto gli obbiettivi e non ha nessuna intenzione di tornare al passato». Parola di Mariano Corso, tra i massimi esperti di smart working in Italia, membro della Commissione tecnica sul lavoro agile nella Pa nominata a gennaio dal ministero della Funzione pubblica e cofondatore del comitato scientifico degli osservatori innovazione digitale della School of management del Politecnico di Milano.
Il lavoro agile nella Pa oggi è libero dalle percentuali fisse. La svolta va nella giusta direzione?
Si tratta di un intervento assolutamente condivisibile per due motivi: primo perché le pubbliche amministrazioni sono molto diverse l’una dall’altra e devono essere autonome e responsabili nel darsi dei modelli organizzativi adeguati, poi perché la percentuale minima del numero di lavoratori a cui si offre lo smart woking calcolata sul totale di quelli impiegati in attività remotizzabili era un indicatore che, preso isolatamente, risultava poco significativo. Era possibile ritenersi perfettamente compliant rispetto all’obbligo anche consentendo una sola giornata di lavoro in remoto al mese per il 60 per cento di lavoratori impiegati in attività che l’amministrazione stessa definisce remotizzabili.
Rischi?
Personalmente ritengo che, mentre sia assolutamente corretto rimuovere le percentuale minime obbligatorie, la formulazione di un piano che possa essere valutato e poi monitorato e potenzialmente migliorato nel tempo, debba essere un atto assolutamente dovuto da parte di ogni Pa. A valle dell’esperienza della pandemia e dei risultati conseguiti sia nel pubblico che nel privato, infatti, non è ammissibile che una Pa possa non impegnarsi a dare risposte alle richieste di flessibilità del personale pubblico e di miglioramento di efficienza ed efficacia da parte dei cittadini.
La Pa viene da oltre un anno di lavoro agile semplificato e i disagi per cittadini e imprese non sono mancati. Tutta colpa della mancata digitalizzazione?
Purtroppo su questo tema si fa una gran confusione: gran parte dei disagi che i cittadini hanno subito relativamente ai servizi pubblici durante l’emergenza non sono stati dovuti al lavoro agile, che al contrario ha consentito a tante amministrazioni di mantenere la continuità operativa nonostante le restrizioni facendo anche fronte a picchi nella domanda di servizi, ma al lockdown e alla pandemia. Oltre che ingenerose e generalizzate questo tipo di valutazioni sono spesso paradossali: è un po’ come attribuire alla cura i danni che si sono patiti a causa di una malattia. Detto questo è innegabile che, se in gran parte della Pa i lavoratori hanno dimostrato un impegno ed una resilienza che forse neanche ci si aspettava, ci sono interi comparti che hanno dimostrato in questo frangente una scarsa maturità tecnologica, organizzativa e manageriale. Non c’è dubbio che in questi comparti occorra procedere urgentemente a un rinnovamento profondo, non tanto per fare smart working, che non è un obiettivo o un diritto per sé, quanto per acquisire quelle caratteristiche di resilienza, efficienza ed innovatività che oggi sono indispensabili per i servizi pubblici di un Paese moderno.
Lei è uno degli esperti chiamati a valutare i Pola, i piani organizzativi per il lavoro agile. Che idea si è fatto?
I Pola sono stati, per le amministrazioni che li hanno preparati, una straordinaria occasione di analisi e programmazione organizzativa. Hanno richiesto lo sforzo di guardare avanti e anticipare nuove soluzioni organizzative a regime. I Pola aiutano a focalizzare l’attenzione del management sui veri pilastri dello smart working, che sono il miglioramento continuo e il lavoro per obiettivi. Si tratta di un esercizio che anche molte aziende private dovrebbero fare. Purtroppo, però, lo scarso tempo a disposizione e la mancanza di obblighi hanno fatto si che molte amministrazioni non sottomettessero il piano. Del resto gli incentivi a sottometterlo apparivano quanto meno dubbi visto che le amministrazioni che non sottoponevano il piano potevano far riferimento a percentuali minime più basse di coloro che lo sottoponevano.
Risultato?
A fronte di alcune amministrazioni che hanno presentato piani molto dettagliati e di elevata qualità, per altre si è trattato prevalentemente di un semplice adempimento o esercizio di stile in cui non si è andati al di là dei dati minimi richiesti dalle linee guida e molte altre ancora non hanno nemmeno ritenuto di dover preparare o sottoporre il piano. Si tratta del resto di ritardi e difficoltà più che prevedibili, ma non è certo il momento di desistere o scoraggiarsi: l’applicazione dello smart working nella Pa non va pensata come un adempimento fine a se stesso, ma come un’occasione per il ripensamento dell’organizzazione del lavoro, l’occasione per dare sostanza agli obiettivi di meritocrazia, managerialità e orientamento alle performance che da anni si cerca di introdurre nella Pa.
Cosa dicono i dati del suo Osservatorio sul grado di propensione allo smart working dei lavoratori pubblici?
I lavoratori pubblici che hanno lavorato in smart working durante la pandemia hanno messo innanzitutto in evidenza quanto, nonostante la scarsa preparazione e spesso il limitato supporto da parte dell’organizzazione, siano riusciti a portare avanti da remoto tutte le loro attività (58%) o almeno gran parte di queste (38%). La stragrande maggioranza di loro dopo questa esperienza non intende tornare al passato, ma ritiene che quella dell’ultimo anno sia un’esperienza sulla base della quale ridisegnare il nuovo modo di lavorare. Dal punto di vista invece delle organizzazioni, le ultime rilevazioni su un campione di 565 Pa ci dicono che lo smart working ha portato importanti benefici in termini di propensione alla sperimentazione di nuovi strumenti, competenze digitali e ripensamento dei processi, mentre le principali difficoltà sono state legate all’accesso alle tecnologie e a una difficoltà a bilanciare i carichi di lavori. In pratica in assenza di strumenti manageriali e stili di leadership adeguati per il lavoro per obiettivi, chi già lavorava molto ha lavorato ancora di più, mentre chi era meno performante ha continuato per la maggior parte ad esserlo.