Che la Costituzione non sia immutabile lo dicono le decine di cambiamenti che la Carta fondamentale dello Stato ha subito nei suoi 75 anni di storia. Modifiche, peraltro, di peso non indifferente, come il numero dei parlamentari (cambiato due volte, l’ultima della quale nella scorsa legislatura) o le restrizioni riguardanti il vincolo di bilancio e il ricorso all’indebitamento (proprio quelle che sono state alla base della pessima figura fatta dalla maggioranza al recente voto sul Def). Nell’immaginario di tutti rimangono però i tanti progetti di riforma falliti (dalla Commissione Bozzi, passando per le varie bicamerali), hanno creato un mito difficile da scalfire. Quello secondo cui chi tentare di cambiare la Costituzione finisce per affondare nella melassa parlamentare (come accadde alla Grande riforma di Craxi o al progetto D’Alema-Letta, suggellato nel “patto della crostata” che prevedeva anche una forma ibrida di presidenzialismo) o viene bocciato dagli elettori nelle urne del referendum confermativo. Quest’ultima è la sorte che toccò alla devoluzione, tanto cara a Umberto Bossi, fucilata dagli elettori nel 2006 e alla riforma di Matteo Renzi, giubilata nelle urne 10 anni dopo.
Ora a sfidare la scaramanzia è Giorgia Meloni così decisa a portare a casa il presidenzialismo da avere assunto personalmente la regia del progetto, con tanto di convocazioni delle forze parlamentari direttamente a Palazzo Chigi (e la ministra titolare delle riforme, l’ex presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, pare non abbia affatto gradito tanto attivismo). Il fatto è che la trasformazione della Repubblica in senso presidenziale è un tassello centrale nel progetto politico che Meloni ha in mente, consapevole com’è che gli equilibri politici non si sono ancora consolidati e che senza un nuovo assetto istituzionale il patrimonio di consensi che ha capitalizzato alle ultime elezioni può fare la fine di quello incassato e velocemente dilapidato prima da Matteo Salvini e poi da Luigi di Maio. Per evitare che la gestione quotidiana del governo e le conflittualità interne alla maggioranza possano appannare la novità che la sua elezione, prima premier donna della storia italiana, ha indubbiamente rappresentato, Meloni alza quindi la posta e punta a un sistema presidenziale che dia pieni poteri a una figura centrale che, in forza dell’investitura popolare, non solo guidi il governo ma rappresenti anche la Nazione, come avviene in Francia da quando Charles De Gaule ha creato la Quinta Repubblica.
Meloni non si impicca a una formula unica ed è disposta anche a “cambiare schema”. In sostanza le vanno bene sia il presidenzialismo puro, sia il semipresidenzialismo alla francese o l’elezione diretta del premier, l’importante è che ci sia un’elezione popolare, perché il sistema “è caratterizzato da una fortissima instabilità, che paradossalmente nell’ultima fase, cioè con la fine della prima Repubblica è peggiorata”. È quindi l’instabilità diventa il primo nemico da battere perché, secondo la premier “non consente un visione di lungo respiro”, al contrario la stabilità è “la più potente riforma economica che possiamo realizzare”.
È chiaro che in una visione del genere il presidenzialismo diventi la priorità assoluta, tutto il resto viene dopo, anche l’Autonomia differenziata, che è la bandiera del riscatto leghista. Nella logica di Meloni il progetto al quale sta lavorando senza sosta il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, è solo un corollario della riforma presidenzialista. Per lei, anzi, le due riforme devono per forza viaggiare insieme. Per usare un’espressione latina un po’ abusata, simul stabunt simul candent, visto che se è garantita la centralità e la stabilità del governo con la forza del mandato popolare si può anche lasciare alle regioni speciali l’autonomia legislativa che la Lega rivendica.
Una strategia che però confligge con quella di Salvini che preferirebbe incassare subito la devoluzione 2.0 e tenersi le mani libere per una nuova competizione interna al centro destra per la leadership futura. Il segretario leghista, infatti, non ha apprezzato affatto il protagonismo di Meloni e la sua accelerata sul presidenzialismo e soprattutto l’incardinamento di una riforma, come l’autonomia differenziata (che necessita di una legge ordinaria) nel più tortuoso percorso della riforma presidenzialista (che deve seguire l’iter delle leggi costituzionali, con doppia approvazione in entrambi i rami del Parlamento), ma soprattutto guarda con molto sospetto gli ammiccamenti tra la premier e Matteo Renzi sul premierato, del resto l’ex sindaco di Firenze lo ha già spiazzato una volta, ai tempi del Papeete. Farsi fregare una seconda volta sarebbe troppo.