Con buona pace di Cicerone, quasi mai la storia è maestra di vita, non si spiegherebbe altrimenti perché i politici continuano per lo più a fare gli stessi errori. Ultimo in ordine di tempo il ministro per la Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, da mesi impegnato a tranquillizzare gli animi garantendo che il governo ha tra le sue priorità anche il rinnovo dei contratti degli statali. Lo ha ridetto anche nell’intervista concessa a PA Magazine lo scorso 4 agosto, nella quale ha ribadito di essere impegnato a reperire risorse in vista della NaDef di settembre che definirà i contorni della Legge di Bilancio, aggiungendo però che nel caso dei rinnovi del triennio 2019-21 (non ancora completati per dirigenti e medici) “sono state necessarie ben quattro leggi di bilancio per chiudere l’ultima tornata. Ci muoveremo quindi tenendo i piedi saldi a terra e con attenzione sia alla stabilità dei conti pubblici che al benessere delle nostre persone”.
Il ministro Paolo Zangrillo: «Più vicini i rinnovi dei contratti degli statali, in arrivo le risorse necessarie»
In altre parole il ministro ha cominciato a mettere le mani avanti e non è un bel segnale, visto che due giorni dopo a Il Messaggero ha spiegato che “non tutto il recupero dell’inflazione potrà avvenire con il contratto. Se sommiamo l’incremento dell’indice Ipca atteso tra il 2022 e il 2024 arriviamo al 15-16 per cento. Servirebbero più di 30 miliardi, è irrealistico pensare di trovarli. Non possiamo scassare i conti dello Stato. Quindi una parte del beneficio ai lavoratori arriverà anche dalle misure fiscali che riguardano tutti i contribuenti”. Ora il messaggio si sta facendo sempre più chiaro ed è evidente che sarà questa la linea del governo: cari amici del pubblico impiego, soldi per il rinnovo dei contratti ce ne sono proprio pochi (si parla al massimo di tre miliardi), ma non preoccupatevi, la nuova Irpef a tre aliquote vi lascerà più soldi in busta paga, per cui non avrete da lamentarvi. Un ragionamento, però, che ha un grande, enorme, punto debole.
Def: zero risorse per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici
La riforma Irpef vale per tutti i contribuenti. Il governo, secondo quanto ha sostenuto finora, vuole realizzarla per dare al Sistema Paese un fisco più equo. Quindi se vantaggi ci saranno per alcune classi di reddito (e la questione è tutta da verificare perché contestualmente alla riduzione di un’aliquota saranno riviste alcune detrazioni e deduzioni, per cui il risultato finale deriverà da una somma algebrica fra tutte le misure), saranno vantaggi erga omnes, valevoli per tutti i lavoratori contribuenti, sia pubblici sia privati. Si tratta, quindi, di una questione che con i contratti c’entra come i cavoli a merenda, tant’è che nessuna categoria datoriale privata ha bloccato il confronto sui contratti, sostenendo che tanto per recuperare l’inflazione basterà la riforma Irpef. Il governo, che per i dipendenti pubblici è anche un datore di lavoro, si sta invece già attestando lungo questa trincea.
Bonus statali, ad agosto fino a 534 euro in più in busta paga
Si tratta però di una linea perdente e la storia, peraltro recente, lo ha già dimostrato ma come abbiamo già detto, reiterare gli errori è una costante per molti politici. Una strategia del genere, infatti, è costata cara a Matteo Renzi, che diventato premier nel febbraio 2014, puntò subito tutte le sue carte sul bonus fiscale da 80 euro, tanto che trovatosi di fronte al nodo del blocco dei contratti del pubblico impiego, deciso a fine 2010 dall’ultimo governo Berlusconi, decise di prorogarlo ulteriormente nonostante di fronte alla Corte Costituzionale pendesse un ricorso promosso dall’Unsa-Confsal. E per suffragare la sua scelta usò lo stesso argomento tirato in ballo ora da Zangrillo: i lavoratori pubblici hanno già avuto una busta paga più pesante grazie al bonus fiscale, i contratti possono aspettare. Non gli portò molto bene, intanto perché nel 2015 la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo il blocco dei contratti, poi perché continuò a cincischiare per molti altri mesi nonostante la sconfitta incassata presso la Consulta. Andò avanti aprendo a parole sul rinnovo e poi nei fatti mantenendo, per esigenze di bilancio, il blocco dichiarato incostituzionale. Del resto, come dichiarò all’epoca il sottosegretario alla Pa, Angelo Rughetti, la linea del governo era: “non si può dare tutto a tutti”.
Non fu una scelta lungimirante. Il consenso del governo Renzi (non solo per la vicenda contratti, ma anche per questo) crollò ai minimi termini e dal 40% ottenuto alle Europee a ridosso della prima erogazione degli 80 euro si passò al disastroso risultato del referendum istituzionale che comportò l’addio di Renzi a Palazzo Chigi. E per la cronaca il premier successivo, Paolo Gentiloni, dovette sudare le sette camicie per evitare ai lavoratori pubblici una tragica beffa, cioè che l’aumento di 85 euro, concesso alla fine dopo sette anni di attesa, non venisse alla fine annullato dalla cancellazione del bonus di 80 euro per superamento dei limiti di remunerazione. Il faticoso tira e molla, comunque, non portò bene, elettoralmente parlando neanche a lui. Quindi, in ultima analisi, ministro Zangrillo, se non vuol dar retta alla lezione della storia, dia una ripassata almeno alla cronaca, soprattutto quella elettorale.