Saranno le elezioni europee incombenti, sarà che sui temi della Giustizia la passione politica s’incendia con rapidità, ma sulla questione della separazione delle carriere dei magistrati il clima si sta facendo incandescente. L’Associazione Nazionale dei Magistrati ha già fatto sapere al ministro Carlo Nordio che non accetterà alcuna trattativa sul tema, e maggioranza e opposizione stanno già affilando le armi, tanto che plotoni di dichiaratori in servizio permanente effettivo sono già partiti all’assolta con dichiarazioni, post sui social, meme e altre munizioni della moderna propaganda 4.0.
Tanto attivismo a me, che lavoro e faccio sindacato in questo settore da decenni, fa solo venire in mente il vecchio lamento di Tito Livio sulle diatribe infinite: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Sì, perché la situazione del comparto Giustizia è forse la più precaria tra i tanti disastri che incombono sulla pubblica amministrazione. I tribunali, penali o civili che siano, sono ingolfati di arretrati, il processo digitale è quasi una barzelletta, tanto che si va avanti ancora a fotocopie, ma se anche ci fossero computer e server all’avanguardia non si saprebbe a chi affidarli, viste le carenze di personale superiori al 30% delle piante organiche. Lo stesso si può dire delle procure e non va meglio neanche nel settore penitenziale, dove un numero francamente indecente di detenuti vive affollato in strutture costruite ai tempi di Napoleone, se non prima. A sorvegliare la popolazione carceraria sono poi agenti sottopagati e anche loro decisamente sottorganico, il che porta a tensioni costanti che sono spesso il brodo di coltura delle esplosioni di violenza di cui poi ci si stupisce. In un quadro così deteriorato viene quasi da sorridere a pensare alla funzione rieducativa che il nostro ordinamento dice di voler perseguire. Ma di che parliamo?
Vogliamo poi soffermarci sulla Giustizia minorile, che pure dovrebbe essere fra le priorità più alte di una società civile? I tribunali e gli istituti di correzione non sono in condizione migliore di tutti gli altri, ma è al collasso anche il sistema dell’assistenza sociale, dagli assistenti stessi agli psicologi fino ad arrivare alle case-famiglia. E potremmo continuare per ore a snocciolare tutti i problemi, settore per settore, del variegato mondo della Giustizia italiana. Ma il dibattito su che cosa s’infiamma? Sulla separazione delle carriere! E a me viene da dire, ad entrambe le parti: ma pensate sul serio che dire sì o no a questa riforma cambierebbe qualcosa? Lo dico soprattutto al ministro, teorizzatore della svolta (chi si oppone punta, comunque, allo statu quo), ma lei pensa davvero che sbarrando ai Pm la carriera giudicante e bloccando la corsia opposta ai giudici, procure e tribunali miracolosamente andrebbero avanti più spediti? Pensa davvero che questo risolverebbe anche uno solo dei mali del nostro sistema?
Se mi si concede la licenza: il dibattito mi ricorda certe discussioni da bar sulla Formula Uno, tipo quelle di chi è convinto che la crisi della Ferrari sia iniziata quando Schumacher ha smesso di correre. Ma davvero può essere il cambio di un pilota a mettere in crisi una scuderia? Ma che può fare un pilota, se non ha dietro ingegneri che tirano fuori progetti vincenti, tecnologie d’avanguardia, meccanici capaci di cambiare gomme in frazioni in un battito di ciglia, i migliori tattici al muretto e così via? Ma per i tifosi il problema rimane solo il pilota, tutto il resto (il team, gli investimenti, le professionalità di supporto, tutto il mondo che gira intorno a una macchina da corsa, e la macchina stessa) non conta? Ecco, lo so che sembra riduttivo, ma la realtà è che il dibattito sulla Giustizia mi sembra altrettanto banale di queste diatribe da bar.
Servirebbe ben altra consapevolezza del baratro che ci circonda e di come ci si dovrebbe impegnare per evitare il disastro. Non si può partire dal vertice. Se un palazzo traballa, non lo mantieni in piedi cambiando il comignolo, devi in primo luogo rinforzare le fondamenta. E allora partiamo da lì: ricostituire gli organici, assumere giovani, investire sulla formazione, cablare tutti gli uffici, modernizzare le reti informatiche, costruire nuove strutture, pagare meglio i lavoratori per evitare la fuga del personale e potrei continuare così, ribadendo obiettivi che saranno anche triti e ritriti, ma la cui novità e originalità sta nel fatto che non sono mai stati veramente perseguiti.
Che cosa bisogna fare lo sappiamo noi lavoratori e lo sanno anche i politici e gli amministratori. La vera rivoluzione sarebbe finalmente fare ciò che va fatto. Servono soldi, ovvio e ne servono anche tanti, ma sono investimenti che non si possono rimandare a tempi migliori, perché se li rinviamo ancora quelle magnifiche sorti e progressive non arriveranno mai. Non è solo una questione di priorità, ma di sopravvivenza. È per questo motivo che da mesi invoco un piano Marshall per la pubblica amministrazione. Siamo come nel dopoguerra, circondati da rovine, o ci si rialza o siamo finiti. E lo saremmo sia con carriere uniche che separate.