Tutto è cominciato nel 1992, con la bufera di Mani Pulite che travolse la Prima Repubblica e mise all’angolo il sistema politico. Da quel momento il dossier Giustizia si è rivelato sempre il più spinoso per ogni maggioranza parlamentare che da allora si sia costituita e non c’è governo che non abbia provato a riformare il settore, varando le norme più disparate che sono state spesso modificate o addirittura cancellate dai successori, tanto che l’intero comparto si è trasformato in un cantiere aperto, uno di quelli infiniti che, al paragone, fanno diventare i lavori della Salerno – Reggio Calabria un intervento lampo.
Citiamo a memoria e sicuramente dimenticheremo più di un provvedimento: 1994 il decreto Biondi per abolire la custodia cautelare per i reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione, nel 2000 e dintorni le cosiddette leggi “ad personam”, che avrebbero dovuto limitare “l’accanimento della magistratura” nei confronti di Silvio Berlusconi, come la Legge Cirami (2002) che introdusse nel codice di procedura penale il concetto di “legittimo sospetto” come motivazione per il trasferimento del processo ad altra sede o la Legge Cirielli (2005), poi diventata “Ex” per il disconoscimento del suo primo firmatario, che riduceva i termini per la prescrizione. Si è passati quindi a provvedimenti di sistema, come la Riforma Alfano (2010) che ha tra l’altro limitato l’uso della custodia cautelare in carcere. Di ampio respiro anche la Legge Severino (2012) per la prevenzione e la repressione della corruzione nella Pubblica Amministrazione o il Pacchetto Cancellieri (2013) per fronteggiare l’emergenza carceri, seguito poi dalla Riforma Orlando del codice penale e del codice di procedura (2017), che tra l’altro ha modificato ancora i termini per la prescrizione, correggendo la Ex Cirielli. Sono misure durate poco, però, perché riscritte nel 2020 dalla Riforma Bonafede, definita dal suo ideatore, il ministro Alfonso “Legge Spazzacorrotti”, che ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, impostazione confermata anche dalla riforma della giustizia penale varata dal ministro Marta Cartabia (2022) che nello stesso anno ha anche riformato il processo civile.
Ora la fiaccola del riformatore è passata nelle mani del ministro Carlo Nordio, che nel Consiglio dei ministri dello scorso 17 giugno ha varato un ddl in tema di diritto penale che sostanzialmente abolisce l’abuso d’ufficio, riduce drasticamente la portata del traffico di influenze illecite e amplia i divieti per i giornalisti in materia di intercettazioni. E dovrebbe essere solo il primo stadio di una riforma complessiva che preveda: separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, niente appello del pm in caso di assoluzione in primo grado, ritorno alla prescrizione sostanziale, riforma della disciplina degli ignoti, mantenendo l’invio in procura e l’archiviazione del gip «solo per i reati importanti» e valutazione della professionalità dei magistrati, con «una statistica di quante indagini sono state portate a compimento, quanto tempo sono durate».
Tutti temi ad altissima valenza politica e addirittura identitaria su cui è facile prevedere una battaglia parlamentare all’arma bianca, che inevitabilmente, però, metterà in secondo piano un elemento che quasi sempre viene dimenticato quando il confronto si politicizza al massimo livello. Nel 1992, quando la disfida nel campo giudiziario ha avuto inizio, il personale amministrativo tra tribunali e amministrazione centrale era composto da quasi 53mila unità, oggi non si arriva a 40mila, mentre i magistrati (dati di Marzo 2022) sono circa 9.500, includendo in tale numero sia quelli fuori ruolo a qualsiasi titolo, sia i magistrati ordinari in tirocinio. Per completare gli organici, insomma, come ha denunciato il Primo Presidente della Cassazione, Pietro Curzio, mancano all’appello altri 1.450 magistrati (il 13,7%), mentre le carenze fra i cancellieri sono arrivate al 25,11%. Cifre che fanno diventare irrealistici gli obiettivi inseriti nel Pnrr (da cui dipendono peraltro finanziamenti decisivi) come la riduzione del 40% della durata dei processi nei tre gradi di giudizio entro il 2026. E peraltro anche la creazione degli Uffici del processo, le strutture tecniche che hanno affiancato i magistrati per velocizzare il loro lavoro, stanno mostrando diverse criticità, dei primi 8.000 tecnici ed esperti assunti con contratto a termine biennale, circa 2 mila hanno già mollato a causa delle retribuzioni non competitive e sono stati rimpiazzati in corsa, ma il danno in termini di formazione sprecata è già stato rilevante ed è destinato a ripetersi appena il biennio di contratto sarà ultimato e bisognerà ricominciare da capo a formare altri 8 mila nuovi precari.
Anche la riforma della giustizia digitale civile, altro obiettivo qualificante del Pnrr, sta segnando il passo tanto che il 3 marzo scorso il Presidente Curzio, prima di lasciare il suo incarico in Cassazione a Margherita Cassano, preso atto che allo stato non è possibile provvedere al deposito dei verbali di udienza con modalità telematiche, non essendo ancora state sviluppate le funzionalità relative del sistema informatico, ha emanato un provvedimento per ripristinare il deposito cartaceo dei verbali fino al pieno adeguamento del sistema digitale.
Ecco, da tutto ciò di dovrebbe desumere che invertire l’ordine delle priorità in tema di Giustizia sarebbe la vera riforma. Affrontare prima i problemi di organico, dotazione e investimenti; portare, insomma, a regime la macchina e poi, solo dopo affrontare le questioni divisive, come la separazione delle carriere, la prescrizione e tutto il resto, sarebbe la grande occasione da cogliere, altrimenti la Giustizia farà la fine di Sagunto, distrutta da Annibale mentre a Roma andava avanti un’infinita disputa fra le diverse factiones senatorie sulla corretta interpretazione dei trattati con Cartagine.