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Giustizia al collasso, manca un dipendente su quattro. E’ l’ora di passare dalle parole ai fatti

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Da Cesare Beccaria in poi sulla certezza della pena si sono scritte montagne di testi di diritto da riempire ben più di una intera biblioteca. A quanto pare, però, non basta visto che si dibatte ancora se il nostro sistema garantisca o meno il rispetto di questo principio. Sono discussioni annose che talvolta sconfinano nella filosofia del diritto, ma sono anche temi che su cui si scontrano partiti e movimenti. Per esempio, l’attuale Premier, Giorgia Meloni, nel difendere l’impostazione data alla riforma della Giustizia dal Guardasigilli Carlo Nordio ha spiegato qual è la sua filosofia giuridica di fondo, ossia che “occorre essere garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione della pena”. Concetto sul quale, almeno sulla carta, è difficile non essere d’accordo, con la consapevolezza, però, che a rendere incerta l’applicazione della pena non sono tanto questioni ideali o ideologiche, quanto problemi più pratici, che poco hanno a che fare con la separazione delle carriere o una diversa regolamentazione delle intercettazioni e molto più con l’allocazione delle risorse nella legge di bilancio.

Mi spiego con un esempio tragico di qualche anno fa: nel febbraio del 2019 un giovane torinese, Stefano Leo, è stato ucciso con una coltellata alla gola da un immigrato di lunga data, Said Mechaquat. L’unica colpa di Leo, agli occhi del suo assassino, era quello di essergli sembrato troppo felice. Ora questo fatto di cronaca può essere esaminato da tanti punti di vista e se vogliamo usare gli occhiali della politica lo possiamo anche leggere, per così dire, da destra o da sinistra. Possiamo dire che all’origine del delitto c’è la difficile integrazione tra culture diverse o possiamo dare la colpa a uno Stato che non sa gestire chi soffre di disagi mentali o ancora, visto che l’omicida, già responsabile di violenze domestiche, si aggirava armato di coltello sotto casa dell’ex compagna, si può aggiungere questo ai tanti casi di mancato controllo di stalker già segnalati per comportamenti violenti.

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Ognuna di queste ragioni, però, scolora di fronte alla vera e scandalosa ragione di questo delitto. L’assassino non doveva essere lì, quel giorno, ma doveva stare in galera, perché una sentenza definitiva lo aveva condannato a un anno e mezzo di carcere proprio per maltrattamenti in famiglia. Una sentenza che, però, non era stata eseguita e non per una ragione ideologica, ma per la cronica carenza d’organico della cancelleria della Corte di Appello di Torino, che oberata di lavoro aveva inviato in ritardo alla Procura la notifica della sentenza e così, all’epoca dei fatti, quest’ultima non aveva ancora disposto l’ordine di carcerazione.

Una vicenda agghiacciante, che qualche titolista a corto di fantasia definirebbe come “storia di ordinaria follia burocratica”, del resto qualche anno prima aveva destato molto scalpore la denuncia del presidente della Corte di Appello di Napoli che nel 2016 rivelò l’esistenza di 50 mila sentenze definitive mai eseguite, 20 mila di assoluzione o prescrizione, ma le altre tutte di condanna, 12 mila delle quali prevedevano il carcere per i condannati, tutti potenzialmente nella situazione dell’assassino di Torino. E anche lì ad essere determinante era la situazione tragica di una macchina della giustizia schiacciata da un arretrato monstre, effetto di una carenza di organici a sua volta frutto di un ultradecennale blocco del turnover.

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2016, 2019, storie vecchie si dirà. Purtroppo no, non è così e a dirlo sono le cifre, che a differenza delle opinioni hanno il pregio dell’oggettività. Ad oggi (dati del 9 novembre 2023) l’esame della pianta organica dell’intero comparto Giustizia segnala che su 43.468 posti ne risultano coperti 32.172. Mancano all’appello 10.808 addetti, il 25,15%, ossia è scoperta una casella su quattro, con gli effetti sull’efficienza della macchina amministrativa che si possono immaginare. E siccome un tribunale non è una fabbrica di gelati, anche una carenza di organico in una cancelleria può creare effetti a catena come quello alla base dell’omicidio di Torino. Se poi a tutto questo si aggiunge l’allarme dell’Osservatorio sul Pubblico Impiego dell’Inps, che prevede nel prossimo decennio  l’esodo di un terzo dei dipendenti pubblici per limiti di età, si capisce facilmente che il tema degli organici nel comparto Giustizia è una vera e propria emergenza nazionale.

Si era pensato di combattere gli arretrati con le assunzioni a termine nei nuovi Uffici del processo, peraltro finanziati con i fondi del Pnrr, ma ormai si è capito che anche questa soluzione non funziona e allora si faccia su scala nazionale quello che in tanti sedi locali si è già cominciato a fare, si usino queste risorse per rimpolpare le cancellerie. Ma è solo il primo passo, serve un programma straordinario di assunzioni, definitive e non temporanee, ma serve anche un progetto organico di riforma e ammodernamento delle strutture. Da questa situazione non si esce con piccoli aggiustamenti, ci vuole molto di più, servono risorse straordinarie e una visione lungimirante. L’ho ricordato ai vertici delle varie amministrazioni che interagiscono nel comparto della Giustizia, ai politici e ai rappresentanti del governo che hanno partecipato venerdì 24 novembre al grande convegno organizzato a Novara da Confsal-UNSA e intitolato, non a caso, “Più organizzazione più servizi”. A parole tutti si sono detti d’accordo. Ora attendiamo i fatti.

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