Alla fine, quasi tre secoli fa, il mugnaio di Potsdam trovò un giudice a Berlino. Uno così rispettoso della legge che osò dare torto a Federico il Grande che voleva abbattere un mulino solo perché rovinava il panorama del castello di Sanssouci. Così almeno dice la leggenda, nella realtà oggi non c’è un giudice a Roma che abbia avuto la forza di andare fino in fondo e restituire a oltre tre milioni di dipendenti pubblici un diritto che lo stesso giudice ammette gli sia stato conculcato. E’ la triste constatazione che si trae dalla vicenda della recente sentenza della Corte Costituzionale sul Trattamento di fine servizio degli statali. La vicenda è a dir poco kafkiana e merita di essere ripercorsa passo dopo passo, proprio perché emblematica di un certo andazzo italiano.
Tutto inizia nel 2011, quando in nome dell’emergenza spread il governo di Mario Monti, insieme ad altre misure pensate per rassicurare i mercati sulla tenuta dei conti italiani, intervenne pesantemente sul lavoro pubblico, bloccando gli aumenti salariali e le assunzioni e dilatando il pagamento delle buonuscite. Nei 12 anni seguenti nessun altro governo ha reputato risolta quell’urgenza ed infatti il tfs viene tuttora pagato, per lo più a rate, due anni dopo il collocamento a riposo, ma solo per chi, prima di andare in pensione, ha già raggiunto i 67 anni di età. In caso di prepensionamento il biennio di attesa parte in ogni caso dai 67 anni e quindi il lavoratore per vedere i primi soldi può aspettare anche sette anni.
Che le attuali regole sul tfs siano una evidente discriminazione a danno dei dipendenti pubblici non possono esserci dubbi, visto che i lavoratori del sistema privato non solo ricevono il trattamento di fine rapporto in tempi molto brevi, ma se il datore di lavoro non è in grado di pagare il tfr, perché in stato di insolvenza o fallito, a versarlo ci pensa un fondo di garanzia dell’Inps. E dubbi al riguardo non ne ha avuti nemmeno la Corte Costituzionale, che nella sua sentenza è stata molto chiara. Non a caso, citando anche altri pronunciamenti precedenti, ha fatto giustizia pure di una serie di considerazioni causidiche che ogni tanto riemergono nel dibattito. Innanzi tutto, ha spiegato la Corte, non c’è differenza tra tfr e tfs, perché anche quest’ultimo non è altro che una forma di “retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile”.
La Corte, però, è scesa più nel dettaglio, precisando che le indennità di fine servizio “costituiscono una componente del compenso conquistato «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa»” e sono, quindi, “una parte integrante del patrimonio del beneficiario, il quale spetta ai superstiti in caso di decesso del lavoratore”. Non solo, essendo retribuzione differita il tfs rientra nei confini dell’art. 36 della Costituzione, quello che sancisce il diritto del lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, tanto più che il tfs è “volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una «particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana»” e la garanzia della giusta retribuzione, “proprio perché attiene a principi fondamentali, «si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione»”. Il trattamento viene, infatti, corrisposto nel momento della cessazione dall’impiego “al preciso fine di agevolare il dipendente nel far fronte alle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione. In ciò si realizza la funzione previdenziale, che, pure, vale a connotare le indennità in scrutinio, e che concorre con quella retributiva”.
Secondo la Corte ha poco senso anche il continuo richiamo ai pericoli per i conti pubblici derivanti dall’elevato ammontare dei tfs da liquidare, perché se si può accettare che “il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio”, bisogna comunque fare in modo che il differimento risponda a criteri di ragionevolezza e proporzionalità ma soprattutto la restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore deve avere limiti temporali «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso». E il biennio di ritardo previsto dopo il raggiungimento della massima età pensionabile “oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità”. E quel che è peggio è che questa misura, dichiaratamente incostituzionale, avendo smarrito «un orizzonte temporale definito» si è trasformata “da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza”. Tanto più che oggi, che l’inflazione ha ripreso a correre, qualsiasi rinvio del Tfs dovrebbe “salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita”, altrimenti tanti saluti all’articolo 36 della Costituzione e alla retribuzione proporzionale a quantità e qualità del lavoro svolto. Pagare il Tfs in così pesante ritardo, quindi, significa pagare meno un lavoro già svolto visto che gli unici interessi riconosciuti al lavoratore sono solo quelli di mora, che certo non compensano un’inflazione superiore all’8% annuo.
La Corte, però, si è spinta ancora più avanti, togliendo di mezzo anche l’ultima obiezione dietro cui cui i governi e l’Inps si sono attestati, ossia che per chi ha bisogno di avere almeno in parte i soldi del tfs è stata sottoscritta una convenzione con le banche per un finanziamento a tasso agevolato fino a 45 mila euro. Questo accordo, infatti, non elimina l’incostituzionalità del rinvio del pagamento, ma si limita a scaricare “sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato”.
Premesso tutto ciò, la sentenza della Corte fa un salto logico di spericolata arditezza, quando serenamente ammette di non poter comunque mettere rimedio al “vulnus costituzionale” accertato al di là di ogni ragionevole dubbio. Non può farlo perché, visto “il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta”, a stabilire modi e tempi di una soluzione deve essere il legislatore, ossia le stesse forze politiche e i governi da loro votati che negli ultimi 12 anni si sono limitate a ciurlare nel manico. La Corte, insomma, dopo aver verificato la violazione della Carta fondamentale ha alzato in alto le mani respingendo la richiesta di chi, avendo subito un torto, si è rivolto agli unici titolati a sancire la violazione delle regole. Ma la conseguenza ancora più grave di questo atteggiamento pilatesco è che con la sua sentenza la corte ha dichiarato di fatto inammissibili anche ulteriori ricorsi e ha dato a partiti e governi un motivo in più per continuare a fare orecchie da mercante.
Ai lavoratori e alle organizzazioni che li rappresentano, per ottenere il rispetto di un proprio diritto non rimane altra via che ricorrere alla propria forza. Contrattuale, sindacale e in definitiva, politica. No, non c’è un giudice a Roma.
Non è vero che l’attesa di due anni + 3 mesi di istruzione pratica partivano solo al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia dei 67 anni, ma anche con il requisito della pensione per raggiunti limiti di servizio, ovvero 42,10 mesi. In verità nemmeno questa tempistica viene rispettata visto che io pensionato con i 43,1 della Fornero, sono in attesa da oltre 2 anni e 9 mesi. L’INPS non rispetta ne i tempi, ne le leggi e nemmeno le persone, prendendo in giro la logica e il diritto. Quello che da fastidio è che ALL’INPS lavorano dipendenti pubblici stipendiati dallo Stato e che di fatto sono colleghi, seppur con mansioni diverse, di tutti quei lavoratori che attendono i loro soldi. In pratica stanno punendi i loro stessi colleghi. Capisco che gli ordini vengono dal governo in carica, ma almeno rispettate i tempi giusti.