Cronaca di un disastro annunciato. Quota 100 è terminata alla fine del 2021, ma il bilancio triennale parla di un flop senza discussione. Il governo si aspettava un milione di adesioni ma le domande complessivamente accolte nel triennio 2019-2021 sono risultate 380 mila, dunque ampiamente al di sotto di quelle attese. A fare i conti, l’analisi congiunta di Inps e Upb (Ufficio parlamentare di bilancio) in vista di eventuali future proposte di modifica delle regole di pensionamento. Secondo lo studio, l’anticipo ha inciso in maniera significativa sul valore dell’assegno: mediamente lo ha ridotto del 4,5 per cento per anno di anticipo per i lavoratori autonomi, del 3,8 per cento per i dipendenti privati e del 5,2 per cento per i dipendenti pubblici. L’eta’ media alla decorrenza si è attestata poco al di sopra di 63 anni, mentre l’anzianità media è di 39,6 anni.
Il bilancio
A ricorrere a “Quota 100” – secondo Inps e Upb – sono stati soprattutto gli uomini. Quasi l’81 per cento dei pensionati con “Quota 100” vi è transitato direttamente dal lavoro, poco meno del 9 per cento da silente (soggetti che pur avendo in passato versato contributi non lavoravano ne’ percepivano altre prestazioni), poco più dell’8 per cento da una condizione di percettore di prestazioni di sostegno al reddito, circa il 2 per cento da prosecutori volontari di contribuzione. La gestione di liquidazione è stata da lavoro dipendente privato per quasi la metà dei casi, da lavoro dipendente pubblico per poco più del 30 per cento, da lavoro autonomo per circa il 20 per cento. Se in valore assoluto le pensioni con “Quota 100” sono state più concentrate al Nord, meno al Mezzogiorno e ancor meno al Centro, in percentuale della base occupazionale o del flusso medio delle uscite per pensione anticipata (quelle più simili a “Quota 100”) mostrano le incidenze maggiori al Mezzogiorno e minori al Nord, con il Centro in posizione intermedia. I pensionamenti dal comparto privato sono lo 0,4 per cento della relativa base occupazionale (con un picco dell’1,2 per cento per il settore “Trasporto e magazzinaggio”), quota che diventa dell’1,3 per cento nel comparto pubblico (con picco del 2,9 per cento per le “Funzioni centrali”). Si è registrata una prevalenza a lasciare il lavoro alla prima decorrenza utile, con almeno uno dei requisiti di età e anzianità al livello minimo. Il rapporto tra anticipo effettivo e anticipo massimo (quello corrispondente all’utilizzo di “Quota 100” non appena possibile) si colloca in media poco sopra il 90 per cento per buona parte degli utilizzatori di “Quota 100”. Mediamente l’anticipo rispetto al piu’ vicino dei requisiti ordinari è di 2,3. Con questi numeri sul tavolo, il governo si prepara ad affrontare, insieme ai sindacati, il dossier della riforma previdenziale, per evitare che il ritorno alla legge Fornero (con lo stop, a fine 2022, della soluzione ponte di quota 102) penalizzi chi è prossimo alla pensione ma non è riuscito ad andare a riposo anticipato.
La riforma
Tra le ipotesi in campo, il pensionamento anticipato a 64 anni accettando il ricalcolo dell’assegno con il metodo contributivo integrale. E mettendo così in conto una riduzione dell’assegno (ma solo fino al raggiungimento dell’età ordinaria) del 4-5 per cento annuo. Secondo alcuni calcoli il taglio complessivo si aggirerebbe tra il 10 e 18 per cento. Nel menù dello cose da fare, un intervento per i giovani che, entrando in un mercato del lavoro spesso precario e discontinuo, non potranno usufruire di un tesoretto di contribuzione adeguata a garantirsi una pensione dignitosa. Il tema è da anni allo studio: la proposta di una pensione di garanzia per i giovani, è stata già messa sul tavolo più volte da altri governi senza mai riuscire a vedere la partita chiusa. La proposta dei sindacati mirerebbe ad introdurre una sorta di ‘correttivo’ al calcolo del sistema contributivo per evitare gravi effetti sulle prestazioni pensionistiche che derivano dalle distorsioni del mercato del lavoro definendo per questo una ‘integrazione ad hoc’ degli assegni a fronte di pensioni insufficienti. L’integrazione, che scatterebbe perciò solo al momento del pensionamento e a beneficio esclusivo di chi si trovi in difficoltà, mira a garantire un assegno complessivo mensile “dignitoso”. Le stime sempre circolate in questi anni hanno disegnato spesso un importo molto vicino ai 1000 euro al mese da destinare unicamente a quelli con problemi di inadeguatezza della pensione. Riflettori accesi anche sulle donne. L’equiparazione dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia con quelli previsti per gli uomini restano al centro delle attenzioni dei sindacati per i quali le ‘carriere’ lavorative tra i sessi non sono equiparabili.